«La storia si ripete due volte» ha scritto Karl Marx, «la prima come tragedia e la seconda come farsa». Mentre cammino da casa mia alla spiaggia di Tel Aviv, non posso che trovarmi d’accordo. Di mattina così presto ci sono pochissime persone per strada. Nessuno porta la mascherina, ma hanno tutti l’aria preoccupata. Si guardano intorno inquieti. No, non sono in caccia di minuscoli virus che circolano nell’aria. Cercano i vigili. Gira voce che la multa per chi non indossa la mascherina in un ambiente pubblico può arrivare a cinquemila shekel, 1.200 euro. Non sono affatto sicuro che sia vero.

A essere sincero, affronto questo secondo lockdown con ben poche certezze. Sei mesi fa, quando la mia famiglia e io abbiamo dovuto entrare in isolamento la prima volta, la storia era semplice: eravamo noi contro il virus. I cittadini del mio Paese contro l’epidemia di Covid-19 che minacciava di colpirci con violenza. Mi sono rinchiuso in casa con mia moglie e mio figlio e ho seguito con ansia le notizie terribili che arrivavano dal nord Italia; di fronte a una tragedia di questa entità, le contrapposizioni fondamentali su cui si basa la mia vita, «destra» e «sinistra», «ebreo» e «musulmano», «ricco» e «povero», sono diventate marginali, irrilevanti.

Il virus di certo non fa distinzioni fra un liberale e un razzista, colpisce tutti indistintamente e così ci rammenta che al disotto della scorza di ideologie e fedi diverse, batte lo stesso cuore. Ricordo chiaramente che nei primi giorni del primo lockdown ho creduto davvero che la gerarchia di pensiero rigida e frustrante che contraddistingue il mio Paese da ormai molti anni stesse per cambiare: improvvisamente, parlamentari di destra hanno cominciato a preoccuparsi delle condizioni rovinose del sistema sanitario di Gaza, artisti dichiaratamente laici si sono prodigati in espressioni di empatia e in aiuti per aree abitate da ebrei ultraortodossi particolarmente colpite dal virus, e proprio il Corona che spargeva morte è parso per un attimo l’amara, tormentosa medicina capace finalmente di unificare la società israeliana che, dopo tre elezioni non decisive nel giro di un anno, sembrava ormai sull’orlo del tracollo.

Oggi, col senno di poi, devo riconoscere che l’apocalisse del Covid non ha portato all’auspicato arrivo del Messia dell’empatia. Il virus ha fatto ciò che i virus sanno fare meglio: ha colpito efficacemente i nostri punti deboli. Non solo quelli fisici, anche quelli sociali. In breve, il Covid è diventato la scusa nelle mani degli esecutori della volontà del primo ministro sotto accusa per chiudere i tribunali appena prima che iniziasse il processo a Netanyahu, e la scusa per disperdere manifestazioni di decine di migliaia di israeliani che arrivavano settimana dopo settimana per protestare di fronte alla residenza di quello stesso primo ministro corrotto.

Cittadini che rispettavano le regole del distanziamento sociale, che nel mese di aprile hanno evitato di incontrare i parenti durante la festività di Pesach — la più importante riunione familiare della tradizione ebraica — hanno avuto la sorpresa di scoprire che il primo ministro e il presidente avevano potuto invece festeggiare con tutta la famiglia, e che colui che oggi ricopre la carica di ministro della Salute ha organizzato una festa con molti invitati per la sua compagna. Miliardari intrallazzati sono stati esentati dalla quarantena al rientro in Israele, partiti religiosi che garantiscono il potere a Netanyahu hanno estorto il permesso per i loro elettori di immergersi nei mikveh chiusi per espletare il bagno rituale, mentre il resto del Paese non era autorizzato a nuotare in mare aperto.

La gente, vedendo la logica buttata fuori dalla finestra in continuazione, ha cominciato a rendersi conto che il coronavirus non è una minaccia ma un’arma, che i diversi gruppi in Israele potevano utilizzare per combattersi a vicenda. Sulla spiaggia deserta mi aggiorno leggendo i quotidiani. La prima notizia in cui mi imbatto arriva dagli Stati Uniti, riporta che negli ultimi sei mesi la ricchezza dei 650 uomini più ricchi del Paese è aumentata di 845 miliardi di dollari. 845 miliardi di dollari evidentemente usciti dalle tasche di decine di milioni di americani ai quali negli ultimi sei mesi la vita ha arriso molto meno. Passo agli inserti.

Alla vigilia del primo lockdown, i giornali erano pieni di consigli su come rispettarlo nel modo più efficace, in vista del secondo, invece, propongono una serie di stratagemmi per aggirarlo: se ti ferma un vigile per strada, digli che stai andando in sinagoga (pregare è infatti permesso), se vai in giro senza mascherina tieni in mano una bottiglia di acqua minerale e se ti dovessero fermare rispondi che hai appena tolto la mascherina per bere, oppure indossa dei pantaloncini corti e racconta che stai praticando attività sportiva. Il coronavirus resta una minaccia, ma è ormai convenuto che non sappiamo come affrontarlo, il nostro prossimo invece resta l’essere detestabile che condivide con noi lo spazio pubblico, un nemico vulnerabile che si può attaccare.

Così il figlio del primo ministro può augurare a chi manifesta contro suo padre di contrarre il Covid e morire, i laici possono accusare in modo selvaggiamente razzista gli ultraortodossi di diffondere l’epidemia, e nel frattempo gli ultraortodossi possono sostenere che il Coronavirus non è altro che una menzogna, una cospirazione antisemita il cui unico fine è impedire la preghiera comunitaria agli ebrei credenti. Senza che ce ne accorgessimo, nel giro di pochi mesi il Covid è diventato da protagonista del teatro della nostra vita a comparsa irrilevante, che forse ci può uccidere ma non è in grado di distrarci neppure un momento dalle vecchie ostilità che dilaniano la nostra società.

Tornando dal mare mi fermo nell’unico caffè del quartiere che è rimasto aperto. Il proprietario mantiene rigorosamente la distanza di sicurezza e mi prega di telefonargli per richiedere la mia ordinazione. L’ordine, mi spiega mentre digito il suo numero, sarà spedito alla panchina dall’altro lato della strada. «Mi scuso per il fastidio», mi dice, «ma la spedizione deve arrivare ad almeno dodici metri di distanza da qui, altrimenti rischio la multa». Cerco di rispondergli con un sorriso rassicurante, ma la mascherina nasconde l’espressione della mia faccia. «Non c’è niente da fare» alza le spalle apologetico mentre attiva la macchina per l’espresso, «è un Paese stupido». E poi subito aggiunge in tono consolatorio, «ma almeno il caffè è buono».

(traduzione di Raffaella Scardi)

20 settembre 2020 (modifica il 20 settembre 2020 | 23:28)

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