Darwin, naturalmente, era convinto che lo stesso schema si applicasse anche a noi, e nell’“Origine dell’Uomo”, arrivò a sostenere che le caratteristiche della società umana fossero il risultato di un processo di competizione tra gruppi basata su differenti codici di comportamento morale. «Non può esservi dubbio – scrive – che una tribù che includa parecchi membri che, in quanto posseggono in misura elevata lo spirito di patriottismo, fedeltà, obbedienza, coraggio e simpatia, siano sempre pronti ad aiutarsi l’un l’altro e a sacrificarsi per il bene comune, potrebbe riuscire vittoriosa su parecchie altre tribù: e questa sarebbe selezione naturale». Gruppi capaci, cioè, di sviluppare comportamenti tali da risolvere, meglio di altri, il problema della cooperazione potranno godere di un vantaggio adattativo e quindi di una maggiore capacità di sopravvivenza e diffusione.

L’evoluzione culturale
L’idea di una selezione naturale a livello di gruppo e non di singolo individuo, cui sembra alludere Darwin, ha vissuto negli anni alterne vicende. Oggi, pur dopo una riabilitazione fondata su nuove evidenze e modelli teorici, il consenso tra gli studiosi continua a non essere unanime. Diversa, invece, è la situazione per quanto riguarda la plausibilità dell’argomentazione di Darwin applicata non all’evoluzione biologica, ma a quella culturale. Norme sociali, codici culturali e morali, tradizioni vengono trasmesse tra le generazioni e determinano in maniera cruciale la capacità di singoli gruppi di adattarsi all’ambiente e, quindi, la possibilità di sopravvivere e di svilupparsi. Troviamo quindi, tratti comuni, in quei popoli che, grazie alla cultura, hanno meglio di altri saputo risolvere i problemi posti da un ambiente ostile. Particolare importanza, in questo senso, rivestono quei tratti comportamentali che per millenni ci hanno insegnato ad affrontare e a risolvere il problema della cooperazione, che hanno dato gambe e stabilità alla nostra capacità di fare le cose insieme.

La selezione di parentela e il “gene egoista”
Come si è sviluppata questa “ipersocialità” e quali meccanismi ne hanno favorito l’evoluzione? Il primo tipo di spiegazione si basa sulla selezione di parentela, un principio popolarizzato con la fortunata espressione “gene egoista”. La collaborazione che noi osserviamo nelle nostre comunità ha una base genetica che si giustifica in virtù della parentela. Siccome individui geneticamente correlati condividono parte del loro patrimonio genetico, possono essere disposti ad aiutarsi tra loro e anche a sacrificarsi per il bene dell’altro, se questo fa aumentare le probabilità di riproduzione non tanto del singolo individuo ma, e qua sta il punto, del suo patrimonio genetico che risiede, come abbiamo visto, negli individui imparentati. Una madre che si sacrifica per il figlio e uno zio per il nipote non stanno facendo che, “egoisticamente”, favorire la sopravvivenza di quella parte del loro stesso patrimonio genetico condiviso con il figlio o il nipote.

Rimane famosa e un po’ leggendaria la risposta che il grande genetista John Haldane sembra abbia dato durante una accesa discussione in un pub a chi gli chiedeva se sarebbe stato disposto a sacrificarsi per il bene comune: «Mi sacrificherei per due fratelli e otto cugini».

L’altruismo può essere evolutivamente vantaggioso
La selezione di parentela gioca certamente un ruolo importante nella spiegazione della nostra ipersocialità, ma non esaurisce tutta la storia. Come spiegare, altrimenti, quelle forme di altruismo verso gli sconosciuti che pure pervadono e fondano la nostra vita in comune? Un secondo principio venne proposto agli inizi degli anni ’70 da un personaggio, anch’esso al limite del leggendario, Robert Trivers. Trivers era allora un giovane studente quando ebbe un’intuizione fulminante che sviluppò poi in un articolo divenuto famosissimo pubblicato nel 1971 sulla Quarterly Review of Biology.



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