L’Arcivescovo ha presieduto, in Duomo, la Celebrazione nella III Domenica dell’Avvento ambrosiano, in cui è entrata in vigore la nuova traduzione dell’Ordinario della Messa che, ha spiegato, «può aiutarci nella qualità della preghiera»

di Annamaria
Braccini

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«In questa Celebrazione nella quale inizia l’uso della nuova traduzione dell’Ordinario della Messa, siamo invitati a seguire, con maggiore attenzione, le parole che diciamo per farle diventare non un’inerzia che si ripete, ma una preghiera che ci accende il cuore di speranza, di sapienza, di desiderio dell’incontro con Dio».

È la III Domenica dell’Avvento ambrosiano e la Messa che l’Arcivescovo presiede in Duomo si apre con il richiamo all’entrata in vigore, appunto, delle modifiche della III edizione del Messale romano. Una Celebrazione che avrebbe dovuto essere diversa, con le rappresentanze di tutte le corali invitate a partecipare. Ma, ovviamente – nemmeno in una seconda organizzazione più ridotta nei numeri – è stato possibile e, allora, il vescovo Mario aggiunge: «Immaginavo che questa sera il Duomo sarebbe stato pieno di tutte le corali a cui desideravo esprimere la mia gratitudine e il mio incoraggiamento per il servizio che rendono alle comunità parrocchiali».

L’invito è a rimandare l’appuntamento – in Cattedrale ci sono, comunque, il responsabile del Servizio di Pastorale Liturgica, monsignor Fausto Gilardi, che concelebra in altare maggiore, e il collaboratore per la Sezione Canto, don Riccardo Miolo che dirige il ristretto numero di cantori – secondo una logica di speranza e fiducia nel domani. Quella che ispira l’intera omelia che si fa invocazione a vivere «il tempo della qualità», in un mondo nel quale, al contrario, «abbiamo vissuto e viviamo il tempo della quantità».

«La vita vale se è tanta, la vita è felice se hai tanto, nella vita conti se puoi fare tanto. Avere, godere, potere: sempre di più, sempre di più. Il tempo della quantità è stato un disastro. ​Abbiamo vissuto e viviamo il tempo della competizione: arrivare prima, contare più degli altri, essere più potenti. La vita è una corsa: è ovvio che gli altri restino indietro, quello che importa è arrivare primi, di tutti gli altri la storia si dimentica. In fretta, più in fretta. Per arrivare primi per vincere non basta essere migliori, bisogna abbattere gli avversari, eliminare la concorrenza, fare la guerra a chi è nemico. Abbiamo vissuto il tempo della competizione e lo stiamo vivendo».

E, ancora, naturalmente è stato un disastro che, mai come ora, alimenta paure e sospetto reciproco.

​«L’incertezza induce a temere, l’imprevedibile e l’imprevisto che sconvolgono i piani e fanno crollare le certezze, seminano la paura. La paura induce a sospettare degli altri come fossero minacce, come rappresentassero un pericolo e si rischia di ritenere la solitudine più rassicurante della comunione. La paura induce a essere inquieti riguardo al futuro e, quindi, a rinunciare a compiere scelte durature e definitive, a rassegnarsi a vivere di quello che si può controllare. La paura induce a essere ossessionati dai controlli e a ricavare spaventi da ogni sintomo sconosciuto».

Ma poi, c’è il tempo della qualità, quello che nasce dalla conoscenza di Cristo, come dice la II Lettera ai Corinzi.

«Il tempo della qualità è quello in cui si respira un’aria nuova, si respira a pieni polmoni perché si diffonde come un profumo, una sensazione che rende piacevole la vita, che apre il pensiero alla verità, che si offre promettente al desiderio. L’immagine di profumo per parlare del segno della Chiesa mette in evidenza l’attrattiva che la comunità esercita per la qualità della vita, dei rapporti tra i fratelli e le sorelle, della sua testimonianza».

Vogliamo dare inizio, per quello che ne siamo capaci, al tempo della qualità dove non domina la paura, ma la confidenza; i rapporti non sono di competizione, ma di fraternità che accoglie e perdona; il sogno condiviso non è l’accumulo e la quantità, ma piuttosto la solidarietà e l’aiuto vicendevole».

​È questo «il tempo dello stile cristiano» che, sottolinea l’Arcivescovo, «deve orientare il cammino verso Natale». Uno stile dai tratti chiari: anzitutto, la gentilezza, come indica papa Francesco nella sua Enciclica “Fratelli tutti” (222-224).

​Senza dimenticare «la finezza che rifugge dalla volgarità; che si trova a disagio nello squallore, che è infastidita dalle parole volgari, aggressive e dalle immagini violente. La finezza è l’arte di tenere in ordine la casa perché sia bello abitarci, anche se semplice, anche se povera; la finezza si arma di pazienza e di fantasia perché anche una cosa da niente può essere un messaggio, anche un fiore, anche una attenzione minima può dare conforto».

​Infine, la sollecitudine «che fa quello che può per mettere a proprio agio gli altri: li accoglie con benevolenza, li aiuta con prontezza, senza umiliare nessuno, si interessa senza invadenza, offre con generosità senza esibizionismo, anche quando non può fare a dare niente fa capire che condivide che soffre con chi soffre e che vorrebbe consolare».

​D’altra parte è stato lo stesso Gesù a dire: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.

«Per noi, possano questi giorni di Avvento, in una situazione segnata da incertezze e complicazioni, essere occasione per dare inizio ai tempi della qualità, del buon profumo, dello stile cristiano fatto di gentilezza, di finezza e di sollecitudine per le persone che ci stanno attorno».

E, alla fine, ancora un richiamo a pregare meglio, anche attraverso le nuove traduzioni, con più attenzione specie alla nuova forma del Padre Nostro. E a preparasi al Natale non solo con le preoccupazioni per le vacanze o il pranzo, pur nella consapevolezza delle difficoltà che stanno sperimentando i lavoratori del settore, ai quali l’Arcivescovo esprime la sua solidarietà. «I Cristiani comprendono che è importante vivere il Natale nel suo Mistero, per questo è importante la qualità della preparazione nella preghiera e nella carità».



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