Pubblichiamo un articolo apparso su Ticino7, allegato de laRegione.

Se volete pianificare uno studio antropologico, le aree dedicate ai cani sono fra i più interessanti luoghi d’osservazione. Sono quegli spazi dove i nostri fedeli quadrupedi possono dare libero sfogo alla loro vitalità. Questo spettacolo, spesso irresistibile, catalizza istintivamente la nostra attenzione, ma se spostiamo lo sguardo dai quadrupedi ai loro compagni bipedi, notiamo qualcosa di altrettanto sorprendente. Nell’interazione con i propri animali, gli esseri umani (che sono animali anche loro) manifestano un’affettività aperta e spontanea, quale raramente si concedono fra simili. 

Ecco il giovane (e presumibilmente cinico) manager che si sfila la giacca firmata e la getta con noncuranza sulla panchina, in modo da non avere impedimenti mentre lancia la palla al suo boxer. Ecco il signore astioso e un po’ imbruttito che si sdilinquisce per uno sbadiglio del suo french bulldog ancora cucciolo. Ecco l’adolescente inviso al mondo (o viceversa) che incoraggia amorevolmente il labrador anzianotto a socializzare sul lungofiume col golden retriever sopraggiunto in quel momento. È uno spettacolo peculiare che ci porta a interrogarci sulla natura delle nostre emozioni e su quelle dei nostri animali. Che di fatto, possiamo ora affermare con un ragionevole grado di confidenza, sono praticamente le stesse, almeno fra mammiferi.


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Aiuto: ‘Ti dispiacerebbe darmi una zampa. Ho un pruritino qui sotto l’orecchio’.

Essere intelligenti

Specifichiamo subito che stiamo parlando di emozioni, non di sentimenti o stati d’animo, i quali invece, allo stato attuale delle conoscenze, sembrerebbero essere prerogativa della specie umana. E questo perché i sentimenti hanno una componente cognitiva, “intellettuale”, che complessifica il dato emotivo puro e semplice (per modo di dire, visto che sono complesse pure le emozioni), trasformando per esempio una sensazione di disagio in senso di vergogna o di colpa, o traslando una gioia inaspettata in un sentimento di felicità e gratitudine. Fino a prova contraria, gli altri animali queste cose non le provano, perché non hanno una mente simbolica. Le ‘nude’ emozioni, al contrario, nascono nel corpo e, anche se possono essere ‘rivestite’ di simboli, agiscono, o meglio ‘ci’ agiscono in maniera istintiva, non mediata dalla riflessione. La paura può travolgerci, la sorpresa può letteralmente “toglierci il respiro”, il disgusto – per un certo cibo o, presso gli umani, verso un certo comportamento – ci costringe ad allontanarci, mentre il desiderio ci attrae irresistibilmente verso qualcuno o qualcosa. Tutto questo noi non lo pensiamo, se non “dopo”, perché prima di tutto lo sentiamo, analogamente a come lo sentono i nostri cani e i nostri gatti, ma anche gli animali non addomesticati come gli orsi, i daini o le tigri. Sulle emozioni, quindi, quanto meno fra mammiferi, ci intendiamo.


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Ricerca: ʻLo prendo, lo prendo, lo prendo, lo prendo!’.

Il panico come strumento

“Essere mammiferi significa diventare socialmente dipendenti, legati gli uni agli altri, in modo da aumentare le probabilità di sopravvivenza”, ha scritto Jaak Panksepp, psicologo e neuroscienziato che negli ultimi anni ha rivoluzionato lo studio degli stati emotivi (“Affective consciousness: Core emotional feelings in animals and humans”, Consciousness and cognition, 2005). Questo ricercatore afferma che nel cervello dei mammiferi siano presenti diverse “stratificazioni” evolutive, la più antica delle quali sarebbe proprio costituita dalle emozioni, che secondo lui sono sette: ricerca (seeking); rabbia (rage); paura (fear); panico (panic); gioco (play); desiderio (lust); cura (care). Ciascuno di questi processi emotivi primari risulta dotato di “un’intelligenza propria” essendo capace di generare risposte comportamentali coerenti e consequenziali, finalizzate all’assolvimento di compiti evolutivi importanti per l’individuo e per la specie. Le emozioni orientano infatti l’azione verso l’obiettivo poiché “Una passione vuole sempre qualcosa” (Frijda, Emotions and action, 2004).
Il sistema del panico, per esempio, è stato adottatto a causa della sostanziale immaturità dei mammiferi alla nascita, la cui sopravvivenza e lo sviluppo dipendono dalla qualità delle cure parentali che vengono loro prodigate. Questo particolare circuito attiva comportamenti quali il pianto o la richiesta d’aiuto in caso di separazione dalla figura di attaccamento, ed è associato all’esperienza affettiva del dolore psicologico (Panksepp & Watt, 2011). 
Evolutosi probabilmente dagli stessi meccanismi che generano il dolore fisico, il circuito del panico risale a milioni di anni fa, il che ci lascia intuire quanto sia importante. Infatti: “Il sistema del dolore psichico [attivato dalla separazione] promuove la coesione sociale, forgia i legami fra i piccoli e chi se ne prende cura, fortifica i rapporti di amicizia e le relazioni sessuali – in breve, promuove la solidarietà sociale fra i membri della specie” (Ibidem). Considerata la loro rilevanza “strategica” , Panksepp considera le emozioni come “doni ancestrali” conferitici dall’evoluzione, laddove altri neuropsicologi le descrivono come “la saggezza delle ere passate” (Lazarus & Lazarus, Passion and Reason, 1994).


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Gioco: ‘Non sono cattivo: cerco giusto un amico per andare al parcoʼ.

Siamo tutti uguali, in fondo

Così, sebbene le funzioni cognitive più evolute arricchiscano enormemente l’esperienza emotiva degli esseri umani, i “motori energetici” dell’affettività sono sottocorticali e mostrano localizzazioni simili fra diverse specie. Ed è proprio questa “continuità evolutiva” (F.B. De Waal, “What is an animal emotion?”, Annals of the New York Academy of Sciences, 2011) che ci riporta al punto di partenza, ovvero all’area cani del parco cittadino. Se diventiamo così “emotivi” quando ci rapportiamo agli animali è perché ci fanno da specchio. Ravvisiamo in loro le emozioni che noi stessi proviamo, ma in forma per così dire “pura”, scevra dal giudizio e da quell’auto-consapevolezza che spesso ci rende goffi e impacciati. Liberi da sentimenti complessi quali l’imbarazzo o il timore di sbagliare, che sono prodotti derivati dalla coscienza di sé, gli animali appartenenti ad altre specie manifestano gioia, curiosità o paura senza preoccuparsi di nasconderle o dissimularle. E poiché le emozioni sono “contagiose”, questo ci consente di ritrovarle in noi, per rispecchiamento. “Ci si guarda allo specchio e si scopre che non c’è nulla di puramente umano nell’avere degli occhi, un naso, due orecchie” dice Emanuele Coccia a proposito del suo ultimo libro, Métamorphoses (2020). “Condividiamo questi tratti con migliaia di altre specie. Il nostro corpo ci dà l’accesso a una vita che è solo in parte umana perché, in realtà, è multispecifica. Siamo già noi stessi biodiversità” (D. Fedeli, 12/8/2020, Corriere della Sera). Questa faccenda della continuità fra le specie non è certo nuova, visto che risale almeno a Charles Darwin (On the Origin of Species, 1859), eppure ci appare sempre più attuale, come se ogni giorno la comprendessimo un po’ di più. Di recente, la ricerca ha per esempio messo in luce come i delfini comunichino in modo molto simile agli esseri umani, e la comparazione neuroanatomica suggerisce una possibile continuità psicologica fra le due specie. E che dire allora del polpo, che è capace di imparare per imitazione, fuggire attraverso i boccaporti delle navi e aprire barattoli per mettere i tentacoli sul cibo? E perché allora il polpo ce lo mangiamo (dopo avere saputo quanto sono intelligenti, io personalmente ho smesso) e i delfini no? 


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Desiderio: ‘Che noia. Se solo avessi un osso da mordere…’.

Siamo umani, mica superiori

Lo specismo è la convinzione in base alla quale gli esseri umani sarebbero superiori per status e valore agli altri animali, e pertanto dovrebbero godere di maggiori diritti. Si tratta di un’attitudine antropocentrica che discrimina non solo fra umani e non umani, ma anche fra le altre specie animali, legittimando per esempio il diverso trattamento riservato alle mucche e ai cani, che pure condividono caratteristiche e interessi simili. Sul versante opposto, Tom Reagan, professore emerito di filosofia, definisce come “soggetti di vita” (“subjects-of-a-life”) tutti gli esseri viventi che “hanno credenze e desideri; percezione, memoria e un senso del futuro, incluso il loro; una vita emotiva, insieme alla capacità di provare piacere e dolore; preferenze e orientamento al benessere; la capacità d’intraprendere un’azione finalizzata al perseguimento di un obiettivo, un’identità psicofisica stabile nel tempo […]”. Secondo l’autore queste caratteristiche, proprie di tutti i mammiferi, fanno sì che tali soggetti siano detentori di diritti, primo fra tutti quello di non soffrire. Insomma, sembrerebbe opportuno un ripensamento generale del nostro rapporto con gli animali, e quindi anche con noi stessi.

LA CONVINZIONE DI ESSRRE “SPECIALI”

La propensione ad assegnare un diverso valore morale sulla base dell’appartenenza all’una o all’altra specie è stato indagato da alcuni psicologi sperimentali (L. Caviola et al. “The moral standing of animals: Towards a psychology of speciesism”, Journal of personality and social psychology, 2019). I risultati di questo studio indicano che lo specismo è un’attitudine psicologica misurabile, stabile nel tempo, che mostra significative differenze individuali e tende a correlare con la propensione ad altre forme di pregiudizio quali il razzismo, il sessismo e l’omofobia. Questo costrutto è in grado di predire il tipo di decisioni che una persona prende e il suo comportamento, per esempio nella scelta della dieta alimentare. Al contrario, un atteggiamento empatico e l’apertura mentale – che sono altri due costrutti psicologici – risultano inversamente proporzionali allo specismo. Non sembrano esserci invece correlazioni di sorta con il grado di educazione e il reddito. Lo stesso studio mette in evidenza come il diverso valore morale conferito agli individui appartenenti ad altre specie non dipende dal fatto di sapere quanto siano intelligenti e senzienti.

 

 

 

 

 

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